talent management

Caccia ai talenti, per le medie imprese c’è ancora molto da imparare

Pur riconoscendo il bisogno di figure chiave per lo sviluppo dell’impresa, le aziende sono poco strutturate nel portarle a bordo. Solo il 6% infatti ha un sistema appropriato di gestione dei talenti. Gli strumenti di recruiting e l’approccio degli imprenditori secondo una ricerca di Ge Capital e School of Management del Politecnico di Milano

Pubblicato il 18 Dic 2014

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Attrarre e trattenere i migliori in azienda è la grande sfida degli uffici del personale. Contenimento dei costi, competizione dei Paesi emergenti e carenza di competenze altamente qualificate rendono sempre più difficile la caccia ai cosiddetti talenti, quelli ad alto potenziale, quelli cruciali per il successo di una impresa. Ma cosa fanno le medie imprese italiane per intercettarli e conservarli e, soprattutto, cosa sono e cosa significano per loro? Ge Capital e School of Management del Politecnico di Milano hanno passato al setaccio 500 medie imprese manifatturiere italiane, restituendo un quadro d’insieme sulla presenza di politiche di talent management nelle aziende italiane.

Nel complesso viene riconosciuto il bisogno di figure chiave per lo sviluppo dell’impresa, ma si è ancora poco strutturati nel portarle a bordo. Solo il 6% infatti ha un sistema strutturato di gestione dei talenti. Le idee non sono chiare neppure su cosa sia il talento, se sia qualcosa di innato o di apprendibile, e se più legato al sapere o alle capacità. Ad ogni modo, le qualità più associate al concetto di talento oggi sono l’attitudine al cambiamento, la capacità di prendere decisioni in condizioni di incertezza e sotto stress, leadership e creatività. Meno richiesti come driver, invece, il desiderio di eccellere e le esperienze professionali. In generale, infatti, le caratteristiche individuali sembrano avere un’importanza maggiore rispetto a competenze ed esperienze.

Quanto alle competenze, si prediligono quelle tecniche (78%), seguite da quelle commerciali (35%). Non a caso, i sales sono gli unici ad avere avuto un incremento salariale a due cifre nell’ultimo triennio in Italia (+15%), come risulta dall’ultimo report sulle retribuzioni di Towers Watson. In generale, comunque, chi ha talento è giovane, dotato di intelligenza sopra la media e ad alto potenziale, ovvero ha la capacità di crescere professionalmente e di assumere elevate responsabilità in tempi rapidi, ma può essere anche una persona dotata di spiccate competenze professionali distintive, particolarmente utili all’azienda. Quasi una su due (47%) dichiara di avere un numero di talenti tra l’1 e il 5% dei dipendenti. Solo il 4% supera il 15% e, con riferimento agli ultimi tre anni, l’80% dice di aver reclutato un numero inferiore al 5% tra impiegati e dirigenti.

Gli strumenti di recruiting più usati sono quelli tradizionali: valutazione dei curriculum vitae, interviste sulle competenze e interviste biografiche. I canali di ricerca principali sono le auto-candidature e le società di ricerca e selezione. Ancora pionieristico il ricorso alle società di recruitment online e ai social network professionali.

In generale, nella ricerca di personale prevale un’ottica di breve periodo, in base alla necessità di coprire ruoli vacanti (94%), che non secondo campagne pianificate e continuative, indipendenti dalle posizioni aperte in quel momento. Infatti, la maggior parte delle medie imprese italiane non ha ancora un sistema strutturato di talent management (il 94%, di cui il 39% non ce l’ha e non è interessato a introdurlo e il 55% non ce l’ha, ma intende introdurlo in futuro).

Gli imprenditori e il talento, un binomio da cui dipendono le performance di business

Sulla base del diverso modo di trattare i talenti, gli imprenditori si dividono in: disinteressati al talento (30%), «person-oriented» (47%) ed «expertise-oriented» (23%). In particolare, i disinteressati considerano il talento una competenza tecnica e non riservano specifiche azioni, né in fase di recruiting né di sviluppo, gestendolo come e insieme alle altre risorse.

Da questo approccio derivano performance inferiori alle potenzialità e un ridotto tempo di permanenza. Si tratta di aziende nazionali, a controllo familiare, con un fatturato compreso tra 10 e 49 milioni di euro e con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249. Le aziende «person-oriented», invece, multinazionali a controllo familiare, hanno una strategia di gestione dei talenti più definita, basata sul fatto che il talento sia legato al potenziale della persona e alla sua capacità di apprendimento. Quindi, ricercano soprattutto decision making e propensione al cambiamento. La maggior parte non possiede un vero e proprio sistema di talent management, ma manifesta attenzione al tema e volontà d’introdurlo.

Gli «expertice-oriented» sono il profilo meno numeroso, corrisponde ad aziende non a controllo familiare, con un fatturato tra 10 e 250 milioni di euro e un numero di dipendenti fino a 250, che è anche il più evoluto in termini di strategie di talent management. Vedono il talento come competenza professionale, quindi oltre a ricercare capacità di decision making e attitudine al cambiamento, ritengono molto importante l’expertise. Utilizzano con più frequenza ed efficacia gli strumenti avanzati e quelli di employer branding (career day, pubblicità e comunicazione). Sono anche più abili a trattenere i talenti: ne valorizzano crescita e sviluppo con formazione, mentoring, coach, job rotation e anche work-life balance. Job rotation ed executive coaching, in particolare, sono gli strumenti di gestione dei talenti risultati più critici, mentre la formazione resta la più efficace.

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