HR strategy

Digitale e neuroscienze per individuare tratti della personalità e funzionamento cognitivo: il recruiting si evolve

Per rispondere alla dinamicità del mercato del lavoro e alla velocità con cui gran parte delle competenze diventano obsolete è necessario adottare un approccio diverso durante i processi di selezione: una semplice analisi delle hard skill non è più sufficiente, serve piuttosto utilizzare i predittori scientifici per valutare la “usability” di una persona. L’intervista a Lorenzo Dornetti, CEO di Neurovendita e Direttore del Neurovendita Lab

Pubblicato il 02 Mag 2022

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Se un tempo il tema delle assunzioni seguiva un iter ben definito e destava poche preoccupazioni, oggi il recruiting è per le aziende una delle aree che richiede un presidio e un’attenzione crescente.

Complici diversi fattori. Stanno cambiando i canali su cui si ricercano le persone, esistono diverse forme di application, associate alle posizioni si richiedono non solo hard skill ma anche soft skill, è sempre più difficile – soprattutto in alcuni ambiti – trovare talenti. Infine, ma non da sottovalutare, è necessario anche fare i conti con il fatto che le competenze diventano velocemente obsolete, e quindi nella ricerca di nuove persone da inserire in azienda si deve ragionare anche in ottica prospettica, guardando al futuro del business.

«Un recente report realizzato dal Sole24Ore ed Ernst&Young stima che, nell’arco di 5 anni, il 60% delle professioni oggi ricercate sul mercato o non ci saranno o non assomiglieranno a quelle attuali», ci ha raccontato Lorenzo Dornetti, CEO di Neurovendita e direttore del Neurovendita Lab. «È molto probabile che tra 5 anni il modo in cui quella stessa persona dovrà lavorare sarà completamente diverso».

Quindi, quello che si evince, è che già in fase di recruiting è necessario valutare bene le caratteristiche delle persone, che dovranno sicuramente essere in grado di adattarsi a un contesto che cambia più o meno velocemente. Questa secondo Dornetti è una prima sfida epocale.

La seconda è legata alla digitalizzazione del processo di recruiting, che è stata accelerata dalla pandemia. «Del campione coinvolto nello studio pubblicato da InfoJobs (oltre 700 HR specialist), il 46% ha dichiarato che con la pandemia ha cambiato totalmente il modo in cui gestiva il processo di recruiting e che adesso lo fa totalmente in digitale, il 45% invece lo ha solo potenziato. In altre parole, oggi, una grossa parte del processo che prima si svolgeva di persona, lo si compie in digitale».

Si tratta di un cambiamento che si porta dietro ulteriori sfide: prima fra tutte capire come gestire il mondo dei colloqui a video, che sono sicuramente più efficienti, senza penalizzare l’efficacia di questo importante passaggio. Prosegue Dornetti: «Con questo tipo di strumenti è più complesso percepire tutte quelle caratteristiche che rientrano nella sfera degli “intangible”, e quindi delle soft skill. È difficile, ad esempio, comprendere lo standing di una persona o il grado di coinvolgimento emotivo rispetto ad una posizione lavorativa».

Recruiting e predittori scientifici

«Quello di cui hanno quindi bisogno le aziende più evolute è poter far riferimento a dei “predittori scientifici” – sottolinea Dornetti -. Oggi il processo di recruiting richiede efficienza e velocità, per rispondere alla dinamicità del mercato del lavoro: quindi, anche il processo di selezione deve essere molto rapido. In questo quadro, un valido supporto viene dalla tecnologia digitale e dalle neuroscienze».

Per fare chiarezza, occorre spiegare che cosa si intende per predittori scientifici. In generale, si fa riferimento al mondo dei tratti della personalità e del funzionamento cognitivo.

«Le aziende oggi devono fare un ulteriore salto in avanti nel loro modo di ragionare, ovvero partire dal presupposto che al momento del recruiting non sanno nello specifico quale prodotto o servizio il dipendente, una volta assunto, dovrà commercializzare. In quali sfide di mercato opererà e con quali processi. Questo vuol dire concentrarsi soprattutto sulla persona, e non semplicemente sulle sue competenze attuali».

Come racconta Dornetti, ci sono molti studi che dimostrano che alcuni tratti personologici hanno una correlazione diretta con alcune prestazioni. Le neuroscienze hanno dato una grande scientificità al concetto di “tratto”: «Prima il tratto era semplicemente una caratteristica stabile del comportamento rivelata attraverso dei test a risposta multipla, era quasi un artefatto statistico. Oggi, grazie alle neuroscienze si riesce ad individuare il substrato biologico che sta sotto quel tratto. Se si trova un isomorfismo tra il comportamento e la biologia che determina il comportamento, si evidenzia più solidità scientifica al tratto, rispetto all’analisi fattoriale statistica. Il tratto è nel cervello, esistono tratti più legati dalla genetica e altri, invece, più influenzabili dall’esperienza. Quello che sappiamo è che tra i 21 e i 25 anni emergono alcune caratteristiche personologiche che restano stabili fino ai 60/65 anni; è il ritratto della persona che resta stabile nel tempo, il nucleo del suo cervello».

Recruiting e neuroscienze: come rilevare i tratti della personalità ed il funzionamento cognitivo

La tecnologia oggi aiuta a individuare i tratti della personalità. I test un tempo erano manuali, lunghi e bisognava farli in presenza. Oggi, sono online: la persona riceve un link e compila il test quando vuole. Il processo è automatizzato e rapido.

Generalmente, sono presi in considerazione diversi aspetti, che sono riconducibili anche al tipo di posizione da ricoprire in azienda per la quale la persona si candida. Per esempio, per l’area manager si fa riferimento ai tratti di “cooperatività”, ovvero la capacità di lavorare con gli altri, ed “auto-direzionalità” intesa come capacità di visualizzare gli obiettivi e raggiungerli. Se si guarda all’area amministrativa, la fa da padrone l’”harm avoidance”, che indica quanto tendenzialmente ci si preoccupa per le possibili conseguenze delle proprie azioni e rappresenta la polarità opposta all’impulsività.

«Il mondo della psicologia della personalità è cresciuto tantissimo negli ultimi vent’anni sulla scia della digitalizzazione – racconta Dornetti -: l’affidabilità e la validità dei test dipende da quanto è possibile realizzare correlazioni con dati esterni. C’è poi un tema meno diffuso in Italia, ma altrettanto solido: quello dei test cognitivi, legati alla velocità di esecuzione mentale. Al di là del QI (quoziente intellettivo) che è un indicatore sintetico, ci sono dei sub-test delle scale Wechsler o le matrici di Raven, i cui test sono stati totalmente digitalizzati. Ci sono dei sub-test specifici, ad esempio, sulla fluenza verbale e sulla capacità di visione di insieme. Questo significa che anche la parte cognitiva può essere misurata. Avere specifiche competenze cognitive di base permette alla persona di essere più predisposta a lavorare anche in mercati differenti o a svolgere mansioni nuove in futuro».

In generale, comunque, in queste valutazioni vige sempre la stessa logica: il concetto di “usability” di una persona, che fa riferimento all’attitudine delle persone di essere spendibili in altri contesti e ruolo. Utilizzare i test consente una mappatura a monte del capitale umano e sapere un domani cosa potrà fare quella persona.

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