Futuro del lavoro

‘Human+Tech’: come sta cambiando il rapporto tra uomo e macchina?

L’impatto dell’automazione sul lavoro può trasformarsi in un’opportunità, a patto che le competenze si rinnovino per affrontare la trasformazione digitale e che le organizzazioni lavorino sulle persone per favorire un cambiamento di mindset. Le testimonianze di Manpower, Accenture, Starbucks Italia, MIT Media Lab e dell’ex Responsabile Risorse Umane del WEF

Pubblicato il 02 Apr 2019

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Il rapporto tra uomo e macchina è uno dei temi più discussi oggi. La domanda che tipicamente si sente è: “I robot rimpiazzeranno gli umani?”. I pareri sull’impatto che l’automazione ha sul mondo del lavoro sono discordanti: c’è chi la vive come una minaccia per i posti di lavoro e chi ne coglie i benefici in termini di richiesta di nuove competenze. Secondo la ricerca “Humans Wanted: Robots need you” presentata da ManpowerGroup al World Economic Forum di Davos, nei prossimi due anni l’impatto dell’automazione industriale sui posti di lavoro non sarà sfavorevole, a patto che le competenze si rinnovino per affrontare la trasformazione digitale.

È stato questo il tema centrale dell’incontro “How science and tech help organizations predict human performanceorganizzato da Manpower a Milano, che, partendo dal presupposto che nel contesto in cui viviamo le capacità umane sono fondamentali, ha messo in evidenza come sia sempre più importante saper predire la performance, valutare le prestazioni, individuare le skill delle persone, per valorizzarle e indirizzarle verso ruoli più affini alle competenze.

Ability, likeability e motivation: le 3 skill a supporto del binomio ‘human+tech’

Come ha sottolineato Tomas Chamorro-Premuzic, Chief Talent Scientist di ManpowerGroup, Psicologo, Autore e Professore di Business Psychology, il binomio ‘human+tech’ deve essere il mainstream alla base di un approccio ottimistico, consapevole dei benefici e delle opportunità economiche che porta l’automazione. «More with less, bisogna capire che quello che stiamo vivendo è una vera e propria occasione di fare upskilling e reskilling – ha ribadito Chamorro-Prezumic -. Stiamo entrando in una nuova Era e oggi la vera sfida che le organizzazioni devono affrontare riguarda le persone: servono gli strumenti per favorire un cambiamento di mindset veloce e immediato, perchè non si può prevedere quali saranno effettivamente le professioni del futuro. Ecco perchè sono importanti le soft skill che permettono alle persone di adattarsi a contesti in mutamento: ability, likeability e motivation sono i tre elementi vincenti quando si lavora insieme ad altre persone e con le macchine».

«Bisogna vincere i timori delle persone facendo leva su due aspetti: responsabilità e fiducia»

Raffaella Temporiti, Responsabile Risorse Umane Accenture ICEG (Italia, Europa Centrale e Grecia), ha ribadito che ci troviamo nella People Era. «Già oggi stiamo assistendo a un’interazione tra uomo e macchine continua, costante e in evoluzione. A Davos abbiamo presentato abbiamo presentato un’analisi che mette in luce come oltre il 60% dei leader intervistati (un totale di più di diecimila persone e quattrocento quadri direttivi, su 13 industry) ha dichiarato che la propria organizzazione utilizza già ora tecnologie intelligenti che mettono in costante contatto uomo e macchina, generando una mole di dati incredibile. Una mole che può essere vista come miniera d’oro, una fonte di crescita per le aziende, di agilità e competitività, che aiuta anche a sprigionare il potenziale delle persone. Una miniera d’oro che si piò trasformare però in un campo minato se i dati non sono utilizzati in modo responsabile».

Per Accenture, gli aspetti su cui le aziende devono lavorare di più in questo momento di fortissima evoluzione sono due: responsabilità e fiducia.

«Il primo tema è strettamente connesso al concetto di leadership responsabile: se è vero che l’evoluzione digitale e la diffusione delle tecnologie intelligenti hanno cambiato le competenze di leadership, oggi più legate all’innovazione, alla collaborazione, ai nuovi modi di collaborare e all’agility, d’altro canto la leadership deve sempre più puntare sul senso di responsabilità. Per quanto riguarda la fiducia non è sempre facile guadagnarsela: le persone hanno dei timori sull’uso dei dati generati dall’interazione con le tecnologie intelligenti (questi dati saranno usati per misurare le mie performance? Che impatto avranno? Viene rispettata la privacy?). La creazione di fiducia è uno snodo essenziale a tal punto che la possiamo chiamare la moneta del futuro. La leadership responsabile deve creare da un lato un forte senso di fiducia attraverso la trasparenza dell’utilizzo dei dati, condividere come si utilizzeranno e co-creare le policy su come utilizzarli. L’obiettivo finale è far percepire alle persone il valore che ha utilizzazre i dati».

«È l’uomo il supporto per la tecnologia e non il viceversa»

Le macchine, la tecnologia sono molto importanti, ma è il fattore umano a tirare le fila per Giampaolo Grossi, General Manager Starbucks Italy: «Credo che sia l’uomo il supporto per la tecnologia e non il viceversa. La lungimiranza della tecnologia resterà sempre orizzontale fino a quando l’uomo non interviene. Tutto questo l’abbiamo vissuto ancora una volta nel percorso di ingaggio delle persone scelte per lavorare allo Starbucks Reserve Roastery di Milano. Come sottolineava il nostro ex Amministratore Delegato Howard Schultz, Starbucks non è un’azienda di caffè che serve le persone ma è un’azienda di persone che servono caffè. È semplice invertire due parole, ma basta per cambiare il significato. Da noi non esistono dipendenti ma partner con cui condividiamo i valori. Durante l’assessment delle 300 persone che abbiamo assunto per lavorare nella roastery di piazza Cordusio ci siamo concentrati sull’attitudine e abbiamo previsto tre mesi di training per fornire loro conoscenze tecniche sul caffè e anche tecnologiche. Nella nostra visione le risorse umane devono essere coinvolte di più a livello operativo, tecnologico di finance».

Ma come si evolverà nel prossimo futuro il rapporto tra uomo e macchina?

«Quello delle Risorse Umane è uno degli ambiti in cui l’Intelligenza Artificiale ha più possibilità di esprimersi», ha ribadito Bruno Lepri, Head of Mobile and Social Computing Lab di FBK e Visiting Researcher presso il MIT Media Lab, raccontando il suo punto di vista, quello di un ‘costruttore’ di algoritmi per l’AI che aiutano a osservare e comprendere i comportamenti, e capire come gestire meglio sia la crescita degli individui sia il modo in cui lavorano nei team. «Rispetto alla selezione dei candidati, per esempio, si possono fare cose interessanti, come utilizzare i dati delle interviste fatte con Skype per comprendere quali soft skill possiede la persona che abbiamo di fronte, la sua personalità e il livello di leadership. Questo avviene attraverso degli algoritmi che, se comparati agli esseri umani, mostrano performance diverse: se da un lato l’uomo fa fatica a liberarsi dai condizionamenti e dai giudizi personali (ecco perchè si parla di bias), dall’altro la macchina vede e quantifica solamente. Attenzione però, questo non vuol dire che le macchine non abbiano limiti: per esempio, gli algoritmi apprendono in base a come sono raccolti i dati, comprese le distorsioni. Se uno ci pensa un algoritmo non è tanto intelligente, può essere modificato, è anche creativo ma non ha la capacità di essere resistente all’imprevisto, ecco perché il ruolo dell’essere umano rimane fondamentale: deve portare quel senso comune tipico dell’essere umano, correggere e aiutare l’algoritmo quando rischia di cadere in errore».

Da unemployed a unemployable: la grande sfida è trovare le skill giuste

Secondo Paolo Gallo, Executive coach ed ex responsabile delle Risorse Umane alla Banca Mondiale e al WEF (World Ecomic Forum), stiamo assistendo a dei cambiamenti epocali significativi.

«Negli Anni Duemila c’erano sostanzialmente sei persone per cinque lavori disponibili. Il 2009, anno della crisi economica, ha portato a collassare tutto il sistema c’erano 6 persone e mezzo che cercavano un lavoro. Adesso c’è un rapporto uno a uno, quindi sembra che ci sia una situazione perfetta (dati aggiornati a settembre 2018). Ma in realtà c’è una differenza sostanziale: negli Anni Duemila le persone erano disoccupate e trovavano un lavoro nel giro di 24/36 mesi; nel 2018 l’85% delle persone aveva delle skill che non erano quelle che chiede il mercato. Siamo quindi passati dagli unemployed agli unemployable: la grande sfida è fare in modo che le organizzazione abbiamo a disposizione le persone giuste per svolgere i lavori».

Ma che tipi di persone servono? «Nel periodo in cui ero al WEF è stata condotta un’analisi su un campione di 3mila capi del personale da cui è emerso che tra le top skill ricercate ci sono la capacità di risolvere i problemi e di lavorare con gli altri, e l’immancabile intelligenza emotiva. Si tratta quindi a ben vedere di un set di competenze che ci rendono umani. Infine stanno cambiando le aspettative di vita e questo vuol dire pensare a una società dove si continua a imparare per tutta la vita. Nel 2030 il 70% dei lavoratori sarà costituito da Millennials o Generazione X, e il 50% rientreranno nella Gig Economy».

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