Nuove competenze

Organization Epigenetics: come intercettare e potenziare il DNA culturale dell’organizzazione

Ogni realtà è caraterizzata da un insieme di regole non scritte che condizionano la vita in azienda e che rappresentano il punto di partenza per delineare un percorso di cambiamento culturale. Fare una fotografia dei modelli culturali e aiutare a scegliere quali incentivare e quali disattivare, in coerenza con la strategia sulla felicità, è anche uno dei compiti del Chief Happiness Officer che possiede tra le altre anche la competenza “organization epigenetics”

Pubblicato il 02 Dic 2020

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Riprendiamo il nostro viaggio attraverso le otto competenze del CHO e ci addentriamo alla scoperta della seconda: organization epigenetics. Le organizzazioni sono sistemi viventi, network relazionali, aggregati di esseri umani e flussi di energie emotive. Questa competenza aiuta a comprendere quali sono i principali modelli mentali e culturali dell’organizzazione e a che stadio evolutivo è il sistema. Una prospettiva che fa emergere il DNA organizzativo, l’insieme di regole non scritte che plasmano e condizionano la vita aziendale e rappresentano il necessario punto di partenza per delineare qualsiasi percorso di cambiamento culturale. Chi ha questa competenza aiuta il sistema a fare una fotografia dei modelli culturali dell’organizzazione e scegliere quali incentivare e quali disattivare in coerenza con la strategia sulla felicità.

Su questa competenza ho intervistato Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari, Co-Founder 2BHappy Agency e IIPO (Italian Institute for Positive Organizations), ideatrici del primo percorso di certificazione CHO in Italia lanciato a settembre 2019.

da sinistra Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari, Co-Founder 2BHappy Agency e IIPO (Italian Institute for Positive Organizations)
da sinistra Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari, Co-Founder 2BHappy Agency e IIPO (Italian Institute for Positive Organizations)

Convinzioni e credenze organizzative: qual è uno snodo per agevolare il passaggio ad un modello culturale positivo?

Le culture organizzative sono il prodotto delle convinzioni, delle assunzioni, delle credenze e visioni del mondo delle persone che abitano le organizzazioni, molto spesso riflettono quelle di chi le ha fondate o le guida. Più queste convinzioni sono diffuse tra i membri dell’organizzazione, più sono state incorporate nei processi e nelle procedure organizzative, più sono ripetute nel tempo e più lungo è il percorso per cambiarle e sostituirle. Le organizzazioni convenzionali sono state costruite su tre modelli mentali principali: prima il dovere e poi il piacere, vince il più forte e conta più ciò che fai o ciò che hai, rispetto a ciò che sei. Queste convinzioni, a volte anche inconsapevoli, si manifestano nella quotidiana vita organizzativa in comportamenti di tipo egoistico o competitivo, attraverso l’orientamento alla competenza tecnica piuttosto che alla valorizzazione dell’essere umano in tutte le sue sfaccettature; in processi di selezione che si focalizzano sulle job description o in performance management e sistemi premianti che guardano solo agli obiettivi quantitativi e di tipo individuale; in stili di leadership orientati al comanda e controlla, formalismo e separazione tra vita e lavoro; in strutture organizzativa di tipo gerarchico e focalizzazione su ruoli e carriere formalizzate o attenzione eccessiva al presenzialismo, alla rigida definizione di orari di lavoro e ferie, solo per citare alcuni esempi concreti tra i più diffusi. Oggi abbiamo un’ampia letteratura e molti strumenti a nostra disposizione – come ad esempio quelli offerti dalla scienza dei livelli e l’Integral Theory di cui un’applicazione molto nota è il modello fornito da Laloux in Reinventare le Organizzazioni – per fare degli assessment della cultura organizzativa, presupposto necessario per disegnare il percorso di evoluzione verso un modello positivo, che in sostanza vede il passaggio da modelli basati sull’ego, sulla separazione, sulla competitività e sul profitto per il il profitto a modelli basati sui principi della valorizzazione dell’essere umano, dell’interconnessione, della cooperazione, mossi da senso e significato.

Un esempio che ci piace raccontare è come in Servizi CGN hanno lavorato per disincentivare il modello mentale e culturale del leader come capo che comanda e controlla e incentivare uno stile di leadership diffusa a tutti i livelli dell’organizzazione, trasformando il tradizionale ruolo del team leader in un facilitatore della squadra. A tal fine i team leader sono valutati sulla base delle capacità di far crescere le persone del team. L’obiettivo è rendere ogni collaboratore leader nel proprio ruolo e capace di decide in autonomia.

Immagine creata da Melissa Parrinello

Ci raccontate il modello “prima il dovere poi il piacere”?

Il modello prima il dovere e poi il piacere è alla base di molti stili di leadership orientati alla tensione continua e alla pressione costante su obiettivi e scadenze; è la convinzione che sotto stress funzioniamo meglio, siamo più veloci e produttivi. Peccato che la scienza ha dimostrato che pressione, stress e tensione generano un aumento di cortisolo nel nostro organismo che chiude i centri dell’apprendimento, ci rende meno capaci di vedere le alternative ai problemi, ci rende meno empatici e creativi. È la cosiddetta chimica negativa che non fa male sempre e in assoluto ma solo se siamo continuamente esposti ad essa e per lungo tempo (e ahimè tutti noi ci rendiamo conto di quanto i nostri tempi siano complessi e sfidanti in tutti gli ambiti della nostra vita). Una chimica che andrebbe controbilanciata in modo più che proporzionale dalla chimica opposta – la produzione dei cosiddetti ormoni del benessere: dopamina, endorfina, ossitocina, serotonina.. – e che in linguaggio organizzativo si traduce in comportamenti orientati al rispetto, processi di celebrazione dei risultati, apprezzamenti e riconoscimenti, ambienti e clima di lavoro sani, confortevoli e in cui ci sia spazio anche per il divertimento e il gioco che sappiamo essere dei potenti acceleratori di creatività, collaborazione, apprendimento.

Vige ancora la regola del vince il più forte? Come contrastarla?

Qui entriamo nell’ambito delle credenze che vedono la vita come una giungla, che dobbiamo lottare per la nostra sopravvivenza, il famoso mors tua vita mea.. e che nelle organizzazioni si manifesta in comportamenti non solo egopatici e competitivi ma anche nella carenza del senso del Noi e in processi di valutazione della performance individuale o in sistemi premianti che tengono conto solo del raggiungimento degli obiettivi quantitativi individuali anche a fronte di comportamenti non etici, non collaborativi etc.. Vediamo questo modello mentale in azione quando ci troviamo di fronte a pettegolezzi e gossip, a conflitti tra dipartimenti (produzione contro qualità, marketing o vendite contro pianificazione, acquisti..). Le organizzazioni positive riconoscono il principio dell’interconnessione e il valore del capitale sociale come più grande risorsa per la resilienza e l’antifragilità sia del sistema che degli individui, dunque rileggono tutti i processi della vita organizzativa rispondendo alla semplice domanda: favorisce l’Io, l’interesse particolare del singolo o il Noi, il senso di appartenenza? E alzano ancora di più l’asticella fino ad allargare il concetto di Noi oltre i collaboratori dell’organizzazione, includendo tutti gli stakeholders (clienti, fornitori, partner..) e anche le comunità in cui sono inserite e il Pianeta. Si preoccupano quindi dell’impatto generale e del contributo positivo che possono realizzare nell’ecosistema in cui sono inserite.

“Nella vita (soprattutto al lavoro..) conta cosa fai e cosa hai”: ci aiutate a comprendere questo modello mentale?

Questa è davvero un’area di grande sfida per i modelli mentali convenzionali. Siamo cresciuti con la convinzione che lavoro e vita privata fossero due aspetti da tenere separati, e infatti ancora parliamo di work-life balance come se avessimo due cervelli e due corpi che ci agganciamo e sganciamo ogni giorno quando mettiamo piede in ufficio o torniamo a casa. Questa illusione della separazione tra l’altro ha mostrato tutti i suoi limiti soprattutto nel periodo del lockdown, e oggi che ci troviamo nella condizione di accelerare il passaggio culturale necessario allo Smart Working, ci troviamo anche costretti a ripensare al lavoro in maniera non solo più fluida ma anche integrata, come elemento della nostra identità e parte integrante della nostra vita. Ed è in questo ripensamento generale che vengono al pettine, come si dice, anche gli altri nodi delle organizzazioni convenzionali in cui il lavoratore, la “risorsa” umana, è stata pensata prevalentemente se non quasi sempre esclusivamente in relazione alla sua competenza tecnica, alle skill funzionali, a ricoprire i compiti predefiniti dall’organizzazione. La complessità, liquidità, velocità dei nostri tempi sta dimostrando invece che le organizzazioni che investono sulla crescita e sullo sviluppo della persona a 360°, sull’aumento della loro consapevolezza e delle abilità trasversali o soft skill (come la loro attitudine all’apprendimento continuo, la flessibilità, l’intelligenza emotiva o il pensiero critico) hanno non solo più chance di sopravvivere e continuare ad esistere ma ottengono questi risultati anche in tempi di crisi grazie all’engagement, alla motivazione e ai livelli di fiducia e senso di appartenenza che riescono ad ottenere in cambio dalle persone quando appunto le considerano come tali, riconoscendone valori, bisogni e creando le condizioni per far fiorire talenti e passioni. Anche in questo caso non mancano esempi concreti delle pratiche che adottano le organizzazioni positive: dalla selezione in base ai valori e all’impatto che la persona intende realizzare nel Mondo di Mondora, ai corsi di coerenza cardiaca di eFM o di comunicazione non-violenta di Biogen.

Nel mese di gennaio proseguiamo con il nostro viaggio che vedrà protagonista la terza competenza: “Evolutionary cultural change: definisci il prossimo stadio evolutivo dell’organizzazione”.

Intervista a Karl Haberkorn, Amministratore delegato Italia, Linzel Anneloes, HR Manager Italia, e Barbara Salvadore, Cultural Brand Ambassador di UPS sul percorso di trasformazione culturale positiva avviato.

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