GUIDE E HOW-TO

Change Management, cos’è e come affrontare bene in azienda la gestione del cambiamento

Digital Transformation e Change Management vanno avanti di pari passo. Si cercano nuovi modi di lavorare, si prendono in considerazione nuove metodologie per ingaggiare le persone, si punta a utilizzare di più (e meglio) la tecnologia e a creare una cultura digitale condivisa, si sviluppano diversi modelli di leadership. L’obiettivo finale? Creare vicinanza, empatia e collaborazione

Pubblicato il 13 Mag 2022

Gaia Fiertler

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Dopo due anni dalla pandemia, la trasformazione digitale continua a guidare i progetti di Change Management. I nuovi modelli di lavoro sono rimasti al centro dell’attenzione e si pensa a una nuova leadership che sviluppi delega ed empowerment delle persone e che guardi all’innovazione e al futuro con capacità visionaria. Ma la vera novità è che permane l’esigenza di una maggiore apertura al cambiamento.

Il Change Management è l’insieme delle attività strutturate per la gestione del cambiamento in azienda. Si tratta di un percorso articolato e complesso, perché ha un forte impatto sulle abitudini delle persone, che per loro natura mostrano sempre una certa resistenza al cambiamento.

Gestire l’aspetto umano, che significa accompagnare le persone verso nuovi obiettivi e consuetudini, risulta quindi l’aspetto più delicato.

Ascolta “Il change management in Inail: 9000 dipendenti in “vero” Smart Working” su Spreaker.

Il Change Management va di pari passo con la Digital Transformation. Introdurre le tecnologie senza trasformare abitudini e processi è infatti inutile, e può rivelarsi uno spreco di soldi e di tempo.

Il tema è già da un po’ sotto le luci dei riflettori, basti pensare che già nel 2017 la trasformazione digitale era entrata al terzo posto tra le ragioni del cambiamento sul posto di lavoro nella survey annuale dell’Osservatorio di Assochange, l’associazione che riunisce change manager, consulenti, aziende, università e business school impegnati nei temi di cambiamento.

L’allora Presidente aveva sottolineato che se da un lato di innovazione tecnologica si parlava già da tempo, riferendosi a interventi isolati o specifici servizi come l’e-commerce, dall’altro gradualmente si iniziava a inquadrare il tema della trasformazione digitale, intesa come un approccio più strutturato e completo, che implica una visione integrata del digitale nell’organizzazione e nel modo di gestire il business e il rapporto con fornitori e clienti.

Guarda il video – “Change Management, Novartis: “Quando l’innovazione parte dalle persone”, intervista a Valeria De Flaviis, Head of Innovative Models di Novartis

Cos’è il Change management

Change Management significa costruire un percorso di transizione che dalla situazione attuale (dove siamo) fissa un obiettivo (dove vogliamo arrivare) e una transizione (come ci arriviamo). Una metodologia efficace di Change Management deve contemplare tutti gli elementi in gioco. I pilastri sono 4, secondo il modello 4P.

  • People: significa cambiare il Mindset delle persone, l’aspetto più oneroso. Il Change Management efficace mette infatti l’utente al centro.
  • Processoccorre rivedere i processi in chiave moderna, efficace e digitale.
  • Platform: serve introdurre in aziende le tecnologie digitali a supporto della produttività, in un mondo ormai mobile.
  • Place: ovvero ripensare i luoghi di lavoro in ottica Activity based workspace e smart working.

Questo approccio porta a numerosi vantaggi, così riassumibili:

  • rispetto degli obiettivi
  • rispetto dei tempi
  • rispetto del budegt
  • aumento del ROI

La Survey Assochange 2020

I risultati della survey di Assochange 2020, in collaborazione con l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, svolta tra marzo e novembre di quest’annus horribilis, confermava al primo posto la trasformazione digitale e l’innovazione tecnologica come ragioni di avvio di un progetto di Change, mentre la riduzione dei costi e l’efficienza restano al secondo posto, seguite dal bisogno di sviluppare nuove competenze e professionalità.

L’urgenza di nuove competenze potrebbe scavalcare la riduzione dei costi, che ha guidato i progetti fino al 2021, anno in cui è stata soppiantata come seconda ragione per investire nel cambiamento.
Tecnologia e digitalizzazione raggiungevano il primo posto anche come ambito di appartenenza dei progetti di Change e sono state le aree prioritarie anche nel 2021, mentre temi come struttura organizzativa e modelli di organizzazione del lavoro si sono consolidati al secondo posto e i processi di lavoro al terzo.

Una nuova leadership per nuovi modelli di lavoro

È dal 2021 che si parla nello specifico di “modelli di organizzazione del lavoro”, prima più in generale si faceva riferimento a “struttura organizzativa/riorganizzazione”.

«L’Osservatorio 2020 suggerisce che l’approccio al Change Management sta evolvendo. Accanto ad alcune tendenze confermate si riscontrano infatti evidenti elementi di cambiamento, dovuti anche agli effetti della pandemia, che ha avuto la funzione di acceleratore di processi già avviati. Questo si registra soprattutto nell’identificazione delle priorità: si cercano nuovi modi di lavorare, maggiore utilizzo della tecnologia, diversi modelli di leadership, tutte istanze accomunate dalla necessità di creare vicinanza, empatia e collaborazione. In pratica, riscontriamo la volontà di reagire a una situazione critica», commentava Moira Masper, Presidente Assochange.

In particolare, se si pensa al cambiamento e ai prossimi anni si assiste a un mutamento profondo della leadership: più efficace se orientata alla delega e all’empowerment delle persone, all’innovazione e al futuro (come ampiezza di visione). E poi di natura visionaria, in grado di focalizzarsi sulle sfide ed essere capace di modificare percezioni e aspettative. Negli ultimi anni la leadership era stata più intesa come pragmatismo, capacità di infondere entusiasmo, dando senso e direzione e coerenza tra il dire e il fare.

White Paper - Digital Integration Hub: portare i dati al centro per accelerare lo sviluppo di nuovi servizi digitali

Più apertura al cambiamento

Il dato più innovativo della survey 2020 era stato una maggiore propensione ad aderire ai progetti di cambiamento introdotti in azienda.

Con la pandemia, infatti, è salita la percentuale di chi partecipa con apertura, disponibilità e spirito costruttivo e la survey presentava i seguenti risultati: quasi un lavoratore su due (49%) dimostrava apertura al cambiamento, mentre nel 2019 era il 40%. Nel frattempo, arrivava al 10% il numero di persone ingaggiate, propositive e proattive nelle iniziative di cambiamento (7% nel 2019). Così, nel complesso, salivano al 59% le persone che affrontavano il cambiamento con spirito costruttivo (43% nel 2019). Scendeva invece al 39% il numero di quelle che, “solo” se attivate, partecipavano ai progetti, con un atteggiamento più di accettazione che di partecipazione (47% nel 2019). In pratica, un lavoratore su 3 comprendeva che il cambiamento è urgente, improcrastinabile ed è una condizione necessaria perché l’azienda possa continuare a competere sul mercato. Mentre ci credeva solo uno su 4 nel 2019, quando il 14% pensava anche che cambiare non fosse prioritario per il business, mentre nel 2020 lo pensa solo il 4%.

«La maggiore apertura al cambiamento, a partire dall’inizio della pandemia, dimostra che è stata compresa la necessità di realizzare nuovi modelli organizzativi e strumenti di lavoro. Ora il management non deve perdere questa opportunità di valorizzare la maggiore disponibilità a cambiare, favorendo l’engagement dei propri collaboratori», raccomanda Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano.

La capacità di coinvolgere e motivare i dipendenti era infatti al secondo posto come fattore di successo di un progetto di Change (55%), preceduto solo dalla sponsorship del top management (66%) e seguito dall’approccio metodologico (27%) e dalla presenza di una cultura inclusiva e aperta al cambiamento (23%). Questa, d’altro canto, se carente era al primo posto come causa di insuccesso (25%), mentre la seconda era il tipo di struttura organizzativa, se agile o rigida (19%) e la terza la scarsa capacità di coinvolgere e ingaggiare i dipendenti (16%). «Impostare un progetto che parta dal coinvolgimento e dalla responsabilità delle persone, senza però creare una struttura che permetta alle persone di contribuire, è una strategia destinata a non raggiungere i risultati desiderati», precisa Moira Masper.

Un nota dolente, infatti, era il numero ancora troppo basso di progetti di cambiamento che ottenevano oltre l’80% degli obiettivi (8%), mentre quasi la metà (44%) non raggiungeva la sufficienza con neppure il 50% dei risultati prefissati e solo uno su due (48%) raggiungeva tra il 60-70% degli obiettivi.

Uno sguardo al passato: a che punto eravamo nel 2017?

La survey Assochange del 2017 indicava ancora nella riduzione dei costi-efficientamento (38,8%) il motivo principale delle iniziative di cambiamento e nelle nuove esigenze dei clienti (31,1%) la seconda ragione. Come anticipato, per la prima volta era stata segnalata anche la “digital transformation” che si piazza al terzo posto (28%), seguita dall’innovazione tecnologica (20%).

Tuttavia, il processo era agli albori in Italia. Il 65% del campione aveva dichiarato di aver avviato la digital transformation, solo il 5% di averla conclusa e il restante 30% era fermo ai blocchi di partenza. «Sono dati che evidenziano che le aziende sono consapevoli che il digitale costituisce una grande opportunità, ma stanno ancora definendo i processi attraverso i quali coglierla. Nella maggior parte dei casi in cui il processo è stato avviato, infatti, è ancora in fase di definizione e non di implementazione», aveva sottolineato Alessio Vaccarezza, il responsabile dell’Osservatorio.

Anche i riscontri relativi al supporto che il digitale offre ai processi di cambiamento, che sono soprattutto organizzativi, segnalavano un utilizzo standard delle nuove tecnologie, basato per lo più su strumenti consolidati.

Il piano di transizione: comunicare e monitorare il cambiamento

Secondo la survey del 2017, per comunicare internamente i processi di change, per esempio, dove la comunicazione resta il secondo punto di debolezza dopo la mancanza di cultura al cambiamento, gli strumenti digitali più utilizzati erano email (93%) per immediatezza e ampiezza di diffusione, video (35,9%), newsletter elettronica (34%) e bacheca elettronica (25%). I social network erano invece usati solo dal 14%, mentre lo erano di più nella comunicazione esterna, ma sempre sotto il 20%.
Anche per ingaggiare e coinvolgere sul cambiamento in atto si faceva ricorso agli strumenti digitali più consolidati, come email, video e newsletter per la capacità di accelerare il livello di consapevolezza, aggiornare sullo stato avanzamento lavori, condividere e collaborare. Mentre si faceva un uso ancora limitato di quegli strumenti ideati proprio per aumentare il coinvolgimento attivo e la collaborazione, come dashboard, piattaforme condivise e gamification. In questo caso però i social network, anche se solo al 14%, erano il secondo canale per creare connessioni dirette. Quanto poi agli applicativi impiegati per monitorare il cambiamento, solo il 10% usava i nuovi strumenti digitali. Quelli più diffusi per la parte hard (costi e impatto sul business) erano Erp/sw gestonali, Excel, report, cruscotti direzionali, mentre survey online e meeting aiutavano a monitorare gli aspetti soft (fiducia, conoscenza, coinvolgimento).

Perché il Change Management è importante per innovare l’azienda

Nonostante la tiepida risposta delle aziende a introdurre strumenti digitali più avanzati, ai tempi quello che era balzato all’occhio era che tra quelle aziende (un terzo del campione) che hanno usato almeno una volta questi strumenti di comunicazione più innovativi per gestire il change (social network, strumenti di condivisione/dashboard e strumenti di gamification), il 53% aveva individuato come punto di forza del progetto proprio il coinvolgimento dei collaboratori, percentuale che era invece al 38% tra chi non aveva introdotto strumenti innovativi. E il 76% aveva anche iniziato un processo di trasformazione digitale, percentuale che calava di 25 punti nelle aziende che avevano adottato strumenti di comunicazione più comuni.
Tutti questi segnali evidenziavano come la tecnologia già allora abilitasse modalità di lavoro nuove, più agili e veloci nel condividere informazioni, essere proattivi e collaborativi, e come potesse avere l’ambizione di diventare un acceleratore di cambio culturale nell’approccio al digital in azienda.
«Restare ancorati al vecchio modo di pensare e la difficoltà di cambiare gli schemi mentali – aveva commentato Moira Masper, allora vicepresidente Assochange – sono tra i principali fattori che producono resistenze nella messa in atto di nuovi comportamenti delle persone e questi aspetti sono maggiormente ricorrenti quando non si comprendono ragioni e motivi del cambiamento».

L’importanza del People Management in un percorso di Change Management

Visto che la carenza di cultura del cambiamento e la mancanza di comunicazione sono considerati i due principali elementi di difficoltà nei processi di Change Management, bisogna sottolineare un aspetto fondamentale: non c’è Change Management senza People Management, senza portare a bordo le persone e cambiare il loro Mindset. Per attuare queste tipologie di percorso all’interno delle organizzazioni infatti, è necessario mettere il dipendente al centro.

Come fare quindi? Da un lato una ben costruita comunicazione interna sul cambiamento può venire d’aiuto per coinvolgere le persone e motivarle.
Attività di ingaggio, piani editoriali, strutturazione di momenti di spiegazione degli step del cambiamento, Call4Ideas, sono alcune degli elementi che le organizzazioni possono pensare di realizzare.

Dall’altro lato però questo non basta: è necessaria una formazione ingaggiante (micro-learning, gamification), personalizzata e continua, che porti le persone a bordo dei progetti e le sensibilizzi sull’importanza della Digital Transformation, contribuendo quindi alla creazione di un mindset condiviso e di una cultura del cambiamento.

“Abbiamo sempre fatto così!”: ecco il muro da abbattere

Le principali resistenze nel 2017 risultavano le abitudini («Abbiamo sempre fatto così») e le credenze (41,8%), la mancanza di motivazione al cambiamento (22,4%), la mancanza di competenze (16,4%) e quella di tempo (9%), mentre il 20,9% riteneva di non aver incontrato ostacoli. Infine, le iniziative per superare il “digital divide” erano ferme a un’azienda su quattro e riguardavano soprattutto comunicazione, formazione, acquisto di strumenti e creazione di nuovi ruoli.
Ma in questi processi che ruolo giocavano gli HR manager? Venivano coinvolti prevalentemente in fase di implementazione (55,3%) e di progettazione (48,5%), meno in quella di definizione del piano e dei suoi obiettivi, ossia meno nella parte strategica del cambiamento. Tuttavia si aveva già la netta sensazione che potessero fare di più per accompagnare gli effetti della digitalizzazione sulle persone. Nel 2017 solo il 39% del campione aveva misurato l’impatto sui comportamenti dell’adozione di una nuova piattaforma o strumento digitale, mentre gli operatori erano stati preparati all’utilizzo tecnico nel 52% dei casi.

4 leve per combattere la resistenza al cambiamento dei dipendenti

Assochange suggerisce 4 leve integrate per superare le resistenze culturali e operative che intralciano i processi, li rallentano, fanno aumentare i costi e, spesso, fanno fallire i progetti.

  1. Comunicare il progetto dall’inizio alla fine

Condividere via via i risultati parziali fino al risultato finale è un modo per tenere ingaggiate e dare fiducia alle persone coinvolte nei progetti. Su questo fronte le tecnologie ormai offrono moltissime opportunità, spesso non utilizzate al meglio. Certo, la diffusione del sapere è anche un tema culturale: la tecnologia può essere un fattore abilitante ma la cultura aziendale deve essere resa “capace” di accoglierla. Da questo punto di vista bisogna considerare gli aspetti intangibili della comunicazione corporate: valori, comportamenti, ascolto, crescita.

  1. Monitorare il progetto anche con KPI “soft”

Monitorare il clima aziendale, con indicatori anche relativi all’engagement delle persone, ai ruoli e alle competenze, aiuterebbe a predisporre interventi per assicurarsi la sponsorship delle persone e l’efficacia delle prestazioni. Un cruscotto esauriente e puntuale, fruibile anche in modalità Mobile, che considera l’andamento dei KPI qualitativi e quantitativi consente di tenere traccia dei risultati strada facendo e, se serve, di orientare meglio il cambiamento. Si tende invece a privilegiare i soli aspetti quantitativi, come i risultati di business, i tempi e i costi del progetto. Si trascurano invece l’attivazione di ruoli e competenze e il reale supporto alle attività necessarie per cambiare. Sembra poi non interessare proprio cosa pensino dipendenti e stakeholder del progetto di change. Riguardo a questo punto, i KPI che possono venire in aiuto possono essere sia KPI di formazione, che dati derivanti dall’HR Analytics.

  1. Valorizzare gli influencer informali

Puntare anche sugli agenti di cambiamento informali, che vengono ascoltati da pari e collaboratori più delle comunicazioni ufficiali, tenendo con loro un filo diretto e dotandoli anche di strumenti e competenze digitali per aumentarne l’efficacia come messaggeri del progetto di trasformazione. Nuovi modelli di relazione possono essere alimentati attraverso interventi di formazione e sensibilizzazione sulle tecnologie di Unified Communication & Collaboration.

  1. Lavorare sulla capacità di leadership dei capi

Coinvolgere e rendere maggiormente partecipi i manager intermedi non solo con formazione tradizionale, ma con modalità digitali e virtuali di condivisione di best practice, training on demand, community, che garantiscono al tempo stesso alta qualità, capillarità, tempestività. E potenziare così il ruolo “cerniera” tra le decisioni strategiche del management e la popolazione operativa, spesso impreparato al ruolo e resistente, con effetti a catena sulle persone e sull’efficacia stessa dei progetti. Queste figure sono quelle da cui ci si aspetta il maggior coinvolgimento e invece sono quelle che, in concreto, a oggi influenzano meno il cambiamento, insieme al direttore della comunicazione e all’HR manager (coinvolto nella fase di progettazione solo in un’azienda su tre), tutte figure che dovrebbero avere più a che fare con le persone.

Ancora una volta, la tecnologia potrebbe fornire loro un valido supporto a essere più proattive, molto spesso però la cultura aziendale non è in grado di realizzarne appieno le potenzialità e sono così costrette a “rimanere indietro” rispetto a un ruolo di prima fila nel cambiamento. Più attivi sono invece il project manager e il change manager, orientati alla supervisione degli aspetti tecnici.

Modello ADKAR, la bussola del Change Management

Uno schema per avviare e concludere con successo il processo di change management è rappresentato dal modello ADKAR brevettato da Prosci, acronimo di Awareness, Desire, Knowledge, Ability e Reinforcement. Ossia: Consapevolezza della necessità di cambiare, Desiderio di partecipare al cambiamento, Conoscenza del modo di attuare il cambiamento, Capacità di implementare il cambiamento con nuove competenze e comportamenti e Rinforzo per rendere il cambiamento duraturo. Il modello è fisso: va seguito con precisione nelle sue sequenze e si basa sul principio che la trasformazione digitale può avvenire solo con la piena adesione dell’intera popolazione aziendale.

Come spiega in un blog post Proge Software, il primo step del modello ADKAR, l’Awareness, mira a costruire all’interno dell’azienda una generale consapevolezza della necessità di rinnovarsi, vincendo le resistenze al cambiamento. Per questo nei processi di change management è fondamentale svolgere intense attività di comunicazione.

Solo concluso il primo step si passa al secondo, Desire, in cui è fondamentale chiarire che cosa deve aspettarsi ogni risorsa in azienda alla conclusione del processo di change management. Queste prime due fasi aprono la strada al terzo step rappresentato dalla Knowledge, ossia dall’acquisizione di conoscenze e skill indispensabili per esercitare un nuovo ruolo all’interno dell’organizzazione.

Se i primi step hanno preparato le persone al cambiamento, gli ultimi due le portano direttamente al centro. A fare la differenza tra la terza e la quarta fase è un passaggio sostanziale, quello che porta dalla semplice conoscenza all’effettiva capacità di utilizzo dei nuovi strumenti di lavoro (Ability). L’ultimo step (Reinforcement), puntella il cambiamento grazie a una visibilità immediata su tutte le difficoltà che gli utenti possono incontrare nel concreto utilizzo dei nuovi strumenti di lavoro. In questo modo si potranno introdurre correttivi tempestivi, capaci di consolidare i risultati raggiunti e scongiurare il rischio di fallimento per l’intero processo.

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